“From doubters to believers”. Quando Jurgen Klopp porta i suoi occhiali e il suo sorriso a trentadue denti in un tempio sacro come Anfield, la missione è chiara. Trasformare una truppa impaurita in un gruppo di affamati combattenti. Sette anni dopo possiamo dire che la missione è riuscita. Klopp arriva al Liverpool nell'ottobre 2015, e trova una squadra sfiancata e smarrita dopo aver toccato con mano il sogno: quello di vincere la Premier League dopo 24 anni di attesa. Sogno svanito in un amaro pomeriggio di maggio del 2014, contro il Chelsea di Mourinho. Brendan Rodgers, il manager dell'epoca, aveva fatto spazio al tedesco, fermandosi proprio sulla soglia dell'immortalità. Oggi è tecnico del Leicester, e sarà pure ricordato con affetto dalle parti di Anfield, ma non c'è il suo faccione di fianco al trofeo della Premier. 

Il ciclo del Liverpool di Klopp, che ieri, dopo 16 anni di attesa (ultima volta nel 2006 in finale contro il West Ham a Cardiff, sempre ai rigori) ha vinto la Coppa d'Inghilterra per l'ottava volta nella sua storia, lo ricorderemo a vita. Forse ancora e più di quello del Barcellona di Guardiola. Sempre antipatico fare paragoni, ma se il catalano si dava al tiki-taka, Klopp ha sempre avuto le idee chiare: calcio heavy-metal, verticalizzare, dominare atleticamente e tecnicamente. 

Il triennio rosso, dopo una finale persa nel 2016 in Europa League contro il Siviglia, ha prodotto quanto segue: Champions League, Supercoppa Europea e Mondiale per Club nel 2019, l'agognata Premier League nel 2020, e le due coppe inglesi in questo 2022. Contro il Chelsea, in una partita per la verità non semplice, ci sono voluti ancora una volta i rigori: è la terza volta che i blues perdono dal dischetto dopo la finale di febbraio in Carabao Cup e quella di Supercoppa Europea di cui sopra, tre anni fa.

In tutto questo, c'è ancora qualcosa da cogliere: il 28 maggio per la terza volta nella storia della manifestazione, andrà in scena un Liverpool-Real Madrid in finale di Coppa dei Campioni. Una a testa, sino a questo momento: nel 1981 vinsero i Reds, e si giocava proprio a Parigi, nel 2018 Karius regalò con i suoi guantoni di argilla consegnò il trofeo agli spagnoli. Il Liverpool, rilevato nel 2010 dalla Fenway Sports Group, proprietaria anche dei Boston Red Sox di baseball, è amministrato bene sia in campo che fuori. 

La peculiarità della gestione del manager tedesco è la crescita di chi già c'era (Henderson, capitano che ha acquistato sotto la sua gestione più personalità, qualità e continuità, o Firmino, arrivato dall'Hoffenheim per 40 milioni proprio nel 2015 e oggetto misterioso per molto tempo, prima di consacrarsi) e soprattutto l'inserimento fulmineo di chi arriva: l'ultimo esempio è Luis Diaz, migliore in campo nella finale di ieri, che pare al Liverpool già da una vita. Il Liverpool non ha praticamente mai sbagliato un acquisto in questi anni: ci sono quelli arrivati a suon di milioni (Van Dijk, Alisson, Salah) e i gregari inesauribili che rispondono sempre presente come Milner, fino a una meravigliosa scoperta come Diogo Jota, che al Wolverhampton segnava una manciata di reti e in rosso ha sfondato qualsiasi record personale. E i ritmi alti: è straordinario come questa squadra giochi da anni ad alto tasso di velocità, come avesse la batteria sempre carica.

La ciliegina sulla torta è lo stesso Klopp: oso dire che nella storia del club, è l'unico allenatore che può essere paragonato a Bill Shankly, il grande artefice del Liverpool moderno. Non tanto e non solo per i risultati, ma soprattutto per l'empatia verso il prossimo, con il suo modo di rendere semplice e godibile una partita di calcio senza alcuna esasperazione eccessiva. Klopp piace a tutti: addetti ai lavori, avversari, pubblico. E se c'è un pubblico che ha bisogno di entrare in relazione col proprio manager, è proprio quello del Liverpool. Rock o heavy-metal, fate voi: Klopp ha rinnovato da poco sino al 2026, per cui c'è ragione di pensare che l'orchestra rossa suonerà ancora per molto molto tempo. “Liverpool was made for me, and I was made for Liverpool”, diceva Shankly. Un assioma che anche Jurgen potrebbe tranquillamente fare suo.

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