È stato uno dei calciatori più importanti della Fiorentina targata Cesare Prandelli e Sinisa Mihajlovic. Uomo cardine e capitano di Torino e Perugia, esperienza quest’ultima che lo ha portato a lasciare un segno indelebile dalle parti del Curi, fino a ricoprire il prestigioso  ruolo di direttore generale del club umbro. 

L'ex difensore Gianluca Comotto si è confessato ai microfoni de Il Pallone Gonfiato, dove ha ripercorso le esperienze più memorabili della sua carriera, come quelle relative alla stagione 2009/10 tra le fila della Fiorentina (club per il quale ha ricoperto pure il ruolo di capo scouting settore giovanile). Compagine che raggiunse gli ottavi di finale di Champions League dopo aver relegato il Liverpool di Benitez al secondo posto nel girone eliminatorio. Ora, Gianluca è attivo più che mai nel mondo del pallone e si gode il talento cristallino del figlio Christian: promessa del calcio italiano che milita attualmente nelle giovanili del Milan.

Le serate di Champions League con la Fiorentina e l'emozionante aneddoto su Sinisa Mihajlovic: ecco la carriera di Gianluca Comotto

Lei ha avuto una carriera molto lunga e ricca di soddisfazioni. Che sensazioni ha provato nel lasciare il calcio giocato e quali sono i tuoi progetti per il futuro?

“La mia carriera è stata lunga e piena di soddisfazioni. Inaspettata da un certo punto di vista perché io ho fatto un percorso particolare, non arrivando da un settore giovanile professionista ma arrivando dai dilettanti. Quindi dal settore giovanile sono passato in Prima Squadra, molto giovane e a 16 anni. Rimane dunque un percorso fatto nei dilettanti per poi arrivare ai professionisti, avendo fatto un passo dopo l’altro. La continua voglia di migliorarmi è stato un fattore decisivo per me. Per quanto riguarda le sensazioni che ho provato nel lasciare il calcio giocato, è stato un percorso un po’ particolare. Non è stata una cosa ragionata ma mi sono ritrovato da una sera all’altra a decidere. Era forse una cosa che covavo dentro, ma in un mercato di gennaio dove doveva rimanere un giocatore fuori lista più giovane di me, mi è scattata la scintilla. Era giusto che smettessi io per iniziare quella da dirigente. Diciamo il passo che mi ha portato a smettere è collegato a quello inerente alla carriera da dirigente a Perugia. Sono cose istintive, da lì in poi non mi sono più guardato indietro e non ci ho più ripensato perché bisogna guardare avanti. 

Progetti futuri? Sto lavorando per una società che di scouting, dato che è la mia passione. Fin da quando giocavo, mi piaceva vedere e individuare i giovani che approdavano in prima squadra per vedere se alzavano il livello e fare una carriera superiore. Ero attirato a queste dinamiche dirigenziali rispetto ad altre. Poi nel calcio del nuovo millennio, devi essere predisposto a fare un po’ tutto, senza essere selettivo nei ruoli. Meglio sapere tutto a 360 gradi, la formazione è importante e seconda delle situazioni, trovarsi pronti a cogliere vari ruoli”

Suo figlio Christian è una promessa del calcio italiano: gli ha trasmesso lei la passione per il calcio? A chi assomiglia di più calcisticamente parlando?

"Christian ha sempre avuto il calcio nel sangue. Mi ricordo la scena bellissima di quando giocavo a Firenze nella Fiorentina: lui aveva 5 anni. Gli altri bambini giocavano nel parco e di fianco a Campo di Marte a Firenze, c’era una scuola calcio e lui lo trovavi appiccicato alla rete a guardare i ragazzini che si allenavano, invece di stare a giocare sulle altalene o ai vari giochi che puoi trovare in un parco. Dunque lui è sempre stato attirato e per fortuna ha pure vissuto qualche anno della mia carriera. Questa cosa gli è rimasta dentro, io non sono uno di quei genitori che dice ‘no no, io la carriera da calciatore non gliela riproporrei’. Io avendo visto e percepito che questa era la sua passione, ho cercato sempre di stimolarlo e di stare dietro ai suoi desideri. Normale che qualche consiglio dal punto di vista mentale gliel’ho dato, il modo di vivere il calcio gliel’ho sempre dato. E’ ancora giovane e di strada ne deve fare tanta, ma quando hai la fortuna di fare ciò che ti piace sicuramente ha uno stimolo in più. A chi somiglia? Lui si può definire un centrocampista moderno, nel senso che i ruoli li fa un po’ tutti. Diciamo che io lo vedo al momento lo vedo come un calciatore alla Tonali, come caratteristiche. Certo, di strada per arrivare a quei livelli ne deve fare. E’ un combattivo, avendo il carattere del padre”

Qual è il ricordo migliore e che lei si porta dietro con maggior orgoglio, inerente alla sua carriera da calciatore?

"Sicuramente il ricordo più bello è quello di aver fatto il capitano un po’ dovunque sono andato. Probabilmente perché cercavo ed ero un esempio. Quindi ero il punto di riferimento di tutti quanti a partire dai compagni, allenatore e ambiente. Questa è stata la cosa più bella della mia carriera. Sentirsi un punto di riferimento in ogni piazza dove andavo, mi riempiva di soddisfazione. Ho cercato sempre di dare tutto per fare in modo che questo ruolo mi si confacesse”

Immagino che tra i ricordi peggiori ci sia l’ottavo di finale di Champions League disputato con la Fiorentina nel 2009/10, contro il Bayern Monaco per via dei clamorosi errori arbitrali di Ovrebo. Che ricordi ha di quel doppio confronto? 

“I ricordi dolorosi fanno parte della carriera. Più che altro una delusione, perché quando perdi l’accesso a un quarto di finale non per demeriti della propria squadra, ma per qualcosa che va oltre, il rammarico è ancora più grosso. Furono errori troppo grandi per non far dubitare il peggio. Quello è sicuro. Peccato perché quella squadra secondo me poteva arrivare a giocarsi anche una semifinale di Champions. Rimane quel rammarico” 

Gianluca Comotto e Sulley Muntari
Comotto affronta Muntari durante Inter-Fiorentina 2009/10

Sempre rimanendo alla stagione disputata con la Fiorentina nel 2009/10, lei era uno dei pilastri di quella squadra. Com’è stata la sua esperienza a Firenze con Cesare Prandelli? Com’è stato accolto dalla piazza?

“In quella Fiorentina non mi sentivo un pilastro perché c’erano giocatori tecnicamente molto più forti di me, ma sicuramente mi sentivo una parte importante per altri punti di vista. La cosa bella è che era un gruppo formato da tanti italiani, un gruppo forte dove c’era un allenatore che in quegli anni a Firenze fece il meglio della propria carriera. Era una squadra che giocava un bel calcio e otteneva dei risultati. Per tre anni di fila, la Fiorentina fece punti per arrivare in Champions e anche in Europa con una semifinale di Europa League e un ottavo di finale di Champions, i risultati erano arrivati. Eravamo una bella realtà, una soddisfazione per il calcio italiano in generale. Io avevo 29 anni e ci arrivai già da ‘grandicello’ ma mi ero inserito in un gruppo nel quale la base era più o meno la stessa e che per 5-6 anni fece veramente delle grandi stagioni”

Battere il Liverpool in Champions League due volte deve essere stato molto emozionante, specialmente la vittoria a Anfield per 2-1 decisiva per il primo posto nel girone. Quale fu il segreto tattico e caratteriale adottato dai viola in quei match? Che approccio avevate avuto per avere la meglio sulla squadra di Benitez a Anfield?

“Noi avevamo una grande organizzazione di base sia in fase di possesso che di non possesso. Poi una consapevolezza che era cresciuta sempre di più perché ci accorgevamo che qualunque squadra che andavamo ad affrontare, non ci metteva mai sotto. Nel match d’andata al Franchi contro il Liverpool, avevamo fatto un primo tempo incredibile dominando. Il ritorno a Anfield fu più sofferto, ma più passavano i minuti e più ci rendevamo conto che era il Liverpool ad avere paura di noi Questa consapevolezza ci portò ad attaccare anche negli ultimi minuti, poi Vargas e Gilardino fecero qualcosa di straordinario che ci portò ad espugnare Anfield”

Lei ha avuto Sinisa Mihajlovic come allenatore nella Fiorentina. Che ricordi ha di lui? Può rivelarci un aneddoto che riguarda lei e Sinisa?

“Su Sinisa si sono sprecate tante parole e tutte meritata, perché era un personaggio veramente unico. Io avevo un bellissimo rapporto con lui, anche se non giocavo sempre perché c’era De Silvestri che è attualmente al Bologna. Diciamo che facevamo la staffetta io e lui: io in carriera ho sempre giocato titolare, ma Sinisa era talmente intelligente e talmente carismatico che riuscì a farmi accettare anche la staffetta. Dunque l’accettare qualche panchina. Poi a fine anno, io andavo a scadenza di contratto e c’è un episodio che mi rimase impresso. Sinisa mi disse: ‘voglio che il prossimo anno tu sia ancora con me per via di come ti sei comportato, sei un esempio per questo gruppo’. Poi alla fine non rinnovai per altre motivazioni ma questa stima di Sinisa, me la porterò dietro per sempre”

Gianluca Comotto
Comotto direttore generale del Perugia, ruolo che ha ricoperto dal 2020 al 2022

Ricordi granata e il punto sulla Serie A attuale: “Napoli sottotono? Addio di Giuntoli determinante” secondo Comotto

Lei è piemontese e ha giocato nel Torino fino a diventare il capitano dei granata: che sensazioni ha provato a indossare quella maglia per così tanto tempo?

“Sono stato capitano nella Primavera del Torino e in Prima Squadra, quindi è stata una vera e propria storia d’amore non con gli alti e bassi che ci sono in tutte le storie. Ho vissuto pure l’onta del fallimento, andare via in prestito in comproprietà con altre squadre, essere tornato tre volte ecc. E’ stata una bella storia d’amore, a Torino non si vivono annate tranquille. Perlomeno io non le ho mai vissute. L’anno che eravamo in B, lottavamo fino all’ultima giornata per salire, poi l’anno successivo lottavi per salvarti e ti salvavi all’ultima giornata ecc. Ricordo annate sempre al cardiopalma, come succede sempre a Torino però io davo qualcosa in più essendo nativo di quelle parti. A livello di spirito lo davo sempre”

Lei ha affrontato avversari davvero importanti durante la sua lunga carriera: quali sono stati i più forti in assoluto?

“Quando in Italia c’era il top mondiale io ero in Serie A e affrontai Zidane, Ronaldo Il Fenomeno, Shevchenko, Weah ecc. ho affrontato giocatori straordinari. Ricordo che in ogni partita c’era una difficoltà diversa. Bisognava essere concentrati al massimo, sennò questi campioni erano pronti a punirti al minimo errore. In carriera e lo racconto sempre, soffrivo in maniera particolare un giocatore che per infortunio non ha espresso ciò che avrebbe potuto esprimere: Pato. Era un giocatore straordinario con una tecnica abbinata alla velocità impressionante. Poi per via del fattore fisico, ha avuto diversi problemi. Un vero peccato perché poteva essere un calciatore top. Quando lo affrontavo ed era al top, mi metteva sempre in grande difficoltà, quindi ho questo ricordo. Aveva strappi devastanti, la palla gli rimaneva incollata al piede, ti spezzava in due”

Riguardo al calcio attuale, qual è il difensore che l’ha impressionata di più ultimamente? 

“In Italia a livello difensivo, sarà per la cura che hanno gli allenatori in modo particolare, i livelli sono sempre altissimi. Voglio fare un nome e magari non è attualmente il top, ma sta facendo secondo me sempre delle stagioni straordinarie e sono contento: Acerbi. Ogni anno sembra che migliori, nonostante anche lui non sia più un ragazzino. Però a livello di affidabilità e a livello di letture tattiche è sempre uno dei top. Lo scorso anno disputò una grande finale di Champions League contro il Manchester City, prestazione di grande intelligenza e grande lettura”

In Serie A, il duello tra Inter e Juventus è sempre più avvincente. Cosa ne pensa di queste due squadre? Secondo lei chi avrà la meglio?

“E’ un bel duello che fa bene al calcio italiano. Sicuramente l’Inter ha qualcosa in più, soprattutto a livello di centrocampo però le carte sono un po’ sparigliate perché l’Inter ha la Champions League, la Juve invece può affrontare tutte le settimane con la tranquillità di arrivare alla domenica. Questo è sicuramente un vantaggio, ma vedo l’Inter favorita. Dopo la finale di Champions dello scorso anno, anche a livello di autostima e consapevolezza la squadra è cresciuta tantissimo”

Dopo l’annata trionfale in Serie A nella scorsa stagione, il Napoli non sta ripetendo il rendimento dello scorso anno. L’addio di Spalletti è stato così determinante, oppure c’è un calo motivazionale dei calciatori dovuto al fatto di aver raggiunto l’apice?

“Penso che di cose ne sono state dette tanti, ma non una che è stata nominata un po’ troppo poco: l’addio di un direttore sportivo come Giuntoli. Faceva la differenza al di là del mercato, ma come gestione del gruppo, gestione dell’allenatore, gestione del presidente ecc. lui è il più bravo di quelli che c’è in giro, quindi lui insieme a Spalletti faceva la differenza. Perdere tutti e due, è stato un colpo grande e quindi il Napoli si deve un attimo riassestare”

Cosa manca secondo lei alla Fiorentina attuale per fare quel tanto agognato salto di qualità?

“I monte ingaggi qualcosa vogliono dire, perché tra le prime e la stessa Fiorentina c’è talmente differenza che riuscire a diventare protagonisti in questo calcio e con queste differenze economiche, non è facile. Poi ci sono i miracoli come abbiamo visto, il Leicester in Premier League anni fa con Ranieri, però sono cose che succedono ogni tot di anni. Sono cose belle che fanno sognare i tifosi, ma non sempre possono verificarsi”

Ultima domanda inerente al VAR: la tecnologia in campo è sotto accusa dei tanti errori commessi nonostante questo prezioso aiuto per i direttori di gara. Cosa non sta funzionando secondo lei?

“Purtroppo il VAR non è come l’occhio di falco nel tennis dove si è sicuri al 100% circa la decisione da prendere. Rimane il fatto che il VAR e il tipo di utilizzo, sono soggettivi. Quando c’è soggettività, una percentuale di errore ci sarà sempre. Se si accetta che una percentuale di errore ci può essere, allora ecco che il VAR viene visto con un occhio diverso. Comunque io ritengo che abbia diminuito la percentuale di errore da parte degli arbitri. Quindi o si pensa di levare anche questa soggettività, ma non vedo come. Bisogna dare per scontato che qualche errore ci sarà sempre”

Intervista a cura e realizzata da Francesco Rossi

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