Di questo Mondiale avrò visto 8-10 partite a dire tanto: nonostante il mestiere imponga ovviamente di seguire e di rimanere aggiornati, il mese qatariota l'ho voluto conservare per prendere fiato da un calcio che non concede più pause, con partite a colazione, pranzo e cena e un calendario intasatissimo. 

Ma si trattava del Mondiale, e quindi, al netto dei buoni propositi sui diritti umani (stando a questo discorso, in Argentina nel 1978 fu pure peggio e mi chiedo perché siamo andati a giocare in Germania nel 2006 se i tedeschi avevano compiuto le atroci tragedie che sappiamo bene, e via dicendo, passatemi la provocazione) un occhio l'ho buttato ugualmente rallentando i ritmi.

E così ho visto il Portogallo faticare contro il Ghana, il Brasile battere brillantemente la Serbia, la Francia giocare sicura con Australia e Polonia, l'Inghilterra che mi ha fatto sbadigliare contro gli Usa e che aveva battuto il Galles più per la pochezza degli avversari che per propria forza. Insomma, un misto di partite qua e là, in attesa della fase a eliminazione diretta in cui ho drizzato di più le antenne.

L'Inghilterra, appunto: è stata eliminata forse dopo la partita che aveva giocato meglio, contro i francesi, seppur il “Guardian” del giorno dopo sostenesse che no, quando ci sono i momenti decisivi proprio non ci siamo, e come dar torto alla penna in questione. 

All'ultimo tentativo Messi ce l'ha fatta: è campione del mondo

Su Croazia-Brasile e su Spagna-Marocco non posso aver avuto un giudizio completo poiché non le ho viste per intero, ma qua tiro fuori il primo punto critico del mio sermone: i trattati calcistici di Facebook li ho letti bene e ho trovato piuttosto fuori luogo esultare per le eliminazioni di brasiliani e spagnoli, in primis da un pulpito tutt'altro che consentito poiché la nazionale italiana al Mondiale non c'è per nulla andata, e bisognerebbe tenerlo un attimo a mente, in secundis perché mi è parso più una rivalsa contro il calcio di qualità che una semplice questione campanilistica.

Sì, perché il grido “viva le squadre organizzate” sollevatosi dopo queste due partite, dove Croazia e Marocco hanno compiuto lo scherzetto ai più quotati, mi è parsa più la dimostrazione lampante, se mai ce ne fosse ancora bisogno, che noi di qualità proprio non ce ne vogliamo intendere e pensiamo sempre con la testa da irrimediabili catenacciari. 

Si crea così l'ennesimo duello tra guelfi e ghibellini che non ha ragione d'essere: il calcio è ovviamente organizzazione, ma è anche qualità. E' possesso palla, ma naturalmente non sterile e senza tiri in porta, bensì produttivo. Ma la qualità conta e vince sempre. La stessa Croazia, di cui si è benedetto il centrocampo, aveva un certo Modric in quel reparto, che non è esattamente il Pasquale Bruno della situazione. La verità sta nel mezzo: accettiamo che il calcio è qualità e organizzazione, senza doverne fare un manifesto divisivo.

Per la terza volta in 24 anni la Croazia termina un altro Mondiale sul podio

“E' la fine del tiki-taka”, si è anche gridato dopo la “derrota” spagnola, ma che passasse già di moda questa espressione lo si era capito, a mio parere, nel momento in cui Klopp e Guardiola, forse i migliori tecnici di quest'ultimo scorcio d'epoca insieme ad Ancelotti, hanno deciso che era ora di prendere il “montone” acquistando Haaland e Darwin Nunez, piuttosto che darsi ai tridenti privi di un vero numero nove. 

E di fatti, dopo questo trionfo di organizzazione, l'Argentina e la Francia sono arrivate in finale giustiziando le operazioni simpatia (quanto le odio, posso dirlo? Ma bisogna per forza sempre adottare una squadra se non c'è la propria in lizza?) rispettivamente 3-0 e 2-0. 

Se ci siamo inebriati per la pirotecnica finalissima, lo dobbiamo alla qualità dei principali protagonisti, Messi e Mbappé, a una partita ricca di colpi di scena, come il Dio del calcio (o la Dea “Eupalla”, come direbbe Brera, dato che in queste ore cadono i trent'anni dalla sua scomparsa) sa spesso regalare.

Ultimi due capitoli: Adani e Messi. In comune hanno certamente la fede argentina e mi viene il dubbio se per il buon Lele non sia ora di prendere cittadinanza a Buenos Aires. Non ricordo un Mondiale in cui si è parlato più dei telecronisti che di ciò che accadeva in campo, ma lo riconduco a questo calcio ormai trasformato da tempo in puro prodotto televisivo e di intrattenimento e che di rituale conserva ben poco. Cosa dire… se mi è concesso, resto agganciato alla professionalità. 

La seconda voce, spalla di un telecronista, è comunque una voce dentro un evento, trasmesso sul primo canale, davanti a milioni di persone. Nessuno vieta di trasmettere emozioni, anzi, ma sovrastare la prima voce e pregare il pubblico all'ascolto di “chiedere scusa a Messi” (per quale motivo? Gli ho forse rubato una merendina a scuola?) significa trascendere. 

Frequento le tribune stampa, chi mi conosce sa da che parte sto, ma non mi sono mai sognato, anche quando si trattava della mia squadra, di buttar giù articoli fuorvianti o di portare la fede all'estremo nel momento in cui ho avuto un accredito al collo. Il calcio è libertà, partecipazione e emozione, ma per queste cose esistono gli spalti normali, le curve, le sedi dei club. Non la tribuna stampa. 

Daniele Adani 

Adani (mi capitò di fargli una fugace intervista qualche anno fa) è simpatico, anche competente e in fondo un “bel fieu” come si dice a Milano. Evitasse di sostituirsi all'evento, pratica diffusa tra parecchi suoi colleghi (spalle o telecronisti), sia ben chiaro, avremmo confezionato la spalla ideale. Proprio questo è il punto: se si pensa che serva urlare per portare uno spettatore dentro l'evento, siamo decisamente fuori strada. 

La Rai sapeva a cosa andava incontro e le andava bene così, in fondo: Adani viene da una tv di tutt'altro stampo (Sky) e con questi presupposti si fanno le nozze coi fichi secchi se poi uno passa alla tv di Stato. Opinione personale.

Da ultimo, Messi, dicevamo. O meglio, Messi-Maradona. Nessuno, nemmeno col fucile puntato alla tempia, mi costringerà a scegliere. Io ho vissuto per intero solo il primo, mentre ero troppo piccolo per ammirare Diego in diretta. Torno alla guerra tra guelfi e ghibellini che dicevo prima: è davvero sfiancante dover assistere ogni volta al gioco dei paragoni, ai corsi e ricorsi storici, al fatto che Messi sarebbe stato Messi solo in caso di vittoria del Mondiale, come Diego. 

Le medie gol, i successi in Coppa America e nel torneo Olimpico, un Mondiale da trascinatore, erano già sufficienti da un pezzo perché Messi fosse Mesi anche con la nazionale. In ogni caso, gli ultimi professori sono stati serviti: il Mondiale è arrivato, ma non c'era nessun accostamento maradoniano da fare, se non quello puramente storico. 

Mi è capitato di cambiare stazione radio un paio di volte, così come di spegnere la tv e chiudere subito il giornale, perché lo stillicidio della filastrocca Messi-Maradona, già nell'aria da anni, è esploso definitivamente in questo mese qatariota. Con quale esito? Nullo. Perché non si arriverà mai a una risposta, perché non è per forza scritto che la comunicazione sportiva debba essere drogata dalla smania di dover paragonare qualsiasi “pedatore”, citando ancora una volta Brera. Come quando nasce una nuova stella, e subito ce ne veniamo fuori con  il consueto "a chi assomiglia?”. No proprio.

Cerchiamo di abbassare il volume delle contrapposizioni, di non confrontare epoche diverse, con ritmi diversi e peculiarità differenti, perché il calcio è stato stravolto da capo a piedi soprattutto negli ultimi trent'anni. Conserviamo, quella sì, la passione e il gusto per la storia del calcio, forma mentis che in Italia deve ancora essere perfezionata. Ma rendiamoci conto che il fatto sportivo non può essere meno rilevante del contorno.

Ha vinto l'Argentina, viva l'Argentina. Se lo merita, dopo 36 anni di digiuno. Come al solito tutto è figlio di un percorso: come l'Italia di Mancini aveva vinto al termine di un biennio di costruzione e lavoro, le 35 partite senza sconfitte interrotte dall'Arabia Saudita nella gara d'esordio in Qatar, sono la testimonianza che nulla è figlio del caso. 

Detesto la parola “miracolo” nel calcio: anche nella storia del Marocco, del Leicester del 2016 o della Grecia 2004, c'è piuttosto quella parolina magica che si chiama “lavoro”. E quindi anche nel percorso della squadra di Scaloni. 

Per la prima volta dalla vittoria del Brasile 2002, non è una europea a vincere il campionato del mondo. Non sappiamo se sia un segnale di cambiamento, personalmente non lo credo. Ma è il giubilo di un popolo. Per il quale il calcio è una religione ben più che ad altre latitudini.

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