I Mondiali di calcio del 1978, giocati in Argentina sotto la dittatura militare di Videla, furono un evento che andò molto oltre lo sport. Matteo Marani ne ripercorre le tappe a 40 anni di distanza 

- di Calogero Destro - 

La dittatura militare di Jorge Rafael Videla, spalleggiato dai generali Massera e Agosti, fu tra le più feroci della storia sudamericana. Tra il 1976, l'anno del golpe "silenzioso", e il 1983, quello della caduta del regime sotto la sollevazione popolare dopo la tremenda sconfitta delle Malvinas, l'Argentina fu un paese dominato dalla paura e da violenze di ogni sorta. Almeno 30mila i giovani scomparsi. Di notte, quando nessuno poteva vedere o sentire. Nessuno poteva puntare il dito contro chi agiva nelle pieghe del buio. Quei desaparecidos avrebbero dovuto rappresentare la generazione d’oro della nazione. Invece portarono solo alle lacrime e alle grida strazianti delle donne di Plaza de Mayo, emblema di un coraggio straordinario e tra i più veementi sintomi di insofferenza nei confronti del regime. In questo contesto drammatico, di terrore e repressione quotidiana, si disputò l’undicesima edizione dei Mondiali di calcio, nel 1978. Una manifestazione che andò molto oltre lo sport, con intrecci politici ed economici destinati ad essere svelati solo molti anni più avanti. Tra chi ha indagato fra i meandri di una storia estremamente complessa, tanto da approfondire quanto da accettare per la sua crudezza, c’è Matteo Marani. Nel quarantesimo anniversario del Mondiale argentino, il vice-direttore di Sky Sport ha infatti condotto un’inchiesta caratterizzata dalla consueta precisione e lucidità, abbinata ad un modo di raccontare i fatti capace di ammaliare il pubblico. Un lavoro di altissimo livello, presentato nell’estate del 2018 proprio su Sky e di cui Marani è tornato a parlare ieri, presso l’Archiginnasio di Bologna. Davanti, una platea variegata, composta da studenti, insegnanti, giornalisti e appassionati di calcio. L’analisi di Marani, che parte dal putsch del ’76 che estromise da ogni logica di potere ciò che restava del peronismo, scandaglia con attenzione il contesto storico in cui si vengono a collocare i mondiali del ’78. Una vittoria, quella dell’albiceleste, ottenuta con aiuti di ogni tipo e che creò nuovo consenso attorno a un regime feroce e spietato, metodico nel violare quotidianamente i diritti umani. Nel Mondiale Argentino, come evidenziato perfettamente da Marani, c’è anche tanta Italia. Ma non si tratta semplicemente degli azzurri di Bearzot che, sul campo, espressero il miglior calcio del torneo, infliggendo l’unica sconfitta di quella rassegna ai padroni di casa. C’è molto di più. E non si tratta "solo" dell’indifferenza (in alcuni casi connivenza) di tanta parte della stampa italiana (eccetto alcuni grandi giornalisti, come Gian Giacomo Foà). Analizzando il carteggio tra Licio Gelli ed Emilio Eduardo Massera - anche’egli entrato a far parte della P2 - Marani sottolinea il ruolo di spicco dell’ex capo della loggia massonica nelle vicende economico-politiche argentine, confermato dalla presenza in tribuna di Gelli durante la finale del 25 luglio 1978. La sera dei festeggiamenti presso l'Hotel Plaza, accanto ai gerarchi argentini, c'era anche Licio Gelli. Non c'era invece Mario Kempes, trascinatore dell'albiceleste a suon di gol e giocate, che preferì non sedere alla mensa di chi, ogni giorno, si macchiava le mani col sangue del proprio popolo.    
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